venerdì 6 maggio 2011

Scotch carta sulla porta della ditta

Signori s'affrettino, tra poco si chiude.

In fondo, attraversare la porta bianca di legno verniciato, non mi dà affatto l'idea che tutto debba finire. E' come se la ditta d'informatica fosse stata finora "ospite" temporaneo della ".... & Figli". A darmi quest'impressione, concorre sicuramente il fatto che nessuno abbia avuto il coraggio di togliere il vetro satinato recante l'intestazione di questa vecchia sartoria che, a detta dell'ingegnere, doveva essere rinomata a Firenze. L'insegna ha campeggiato lì per anni, in un netto contrasto vecchia società - nuova - società. La carta da parati a righe rosa sembrava sbeffeggiare i computer, gli specchi non erano certo lì per riflettere finestre web: nessuno li sentiva, ma sussurravano ai tecnici intenti a montare e smontare l'hardware: "ma cosa volete fare? venite qui... provatevi questo vestito da sposa... indossate questa gonna in pizzo francese... indugiate sulla vostra immagine..." Le porte verniciate di rosso lacca hanno sempre urlato "Questo posto è nostro.". Società della cura del dettaglio contro società usa-e-getta, lavoro manuale-lavoro virtuale. Non avrei mai immaginato che il server perdesse così ignominiosamente contro una fine tappezzeria. Strano.
Questa stanza è enorme. Molte volte ho pensato che questa sarebbe stata la mia casa ideale: una zona giorno dilatata a dismisura... con un gran divano. E poi, due camere da letto raccolte.
In fondo, a sinistra, c'è una stanza mai usata. Mi è sempre piaciuto entrare nei posti dismessi. Provo un insano piacere nel contemplare mobili e oggetti accatastati tra il laniccio, perchè mi posso perdere a fantasticare cosa potrei saccheggiare, adattare o lucidare, rendere nuovamente vivo con una semplice pulitina. E' come tuffarsi nell'uovo di Pasqua: "ora cosa ci trovo?"... di solito ci sguazzo, in queste situazioni, e, se non mi vengono a chiamare, sono davvero capace di stare a vagare con lo sguardo per molto tempo, ferma, senza fare nulla. Quando ero piccola, adoravo la cantina del "laboratorio", quella che sfociava nel vecchio forno conteso. Non c'era luce in quel lunghissimo tunnel, ma io provavo, mi avventuravo... non arrivavo quasi mai in fondo, ma ricordo bene la mia inglesina con le ruote bianche, l'odore del muro ammuffito e del legno secco tarlato, le ragnatele che toccavano il collo. E' come se l'inglesina fosse rimasta mia, anche se non esiste più.
Anche qui è la stessa cosa. Mi sono appropriata mentalmente di tutti quegli oggetti, della stanza intera. Tu mi hai detto di andare, ma io l'avevo già assunta, fissata, cosicchè nessuno me la portasse via, più.
Tuttavia, pare proprio che ce ne dobbiamo andare, eh? Dò un'occhiata alla stanza dell'Ingegnere, quella strategicamente in fondo: questo libro su Fontana deve valere qualcosa. Che ci fa, abbandonato ancora qui? Alzo lo sguardo sulla libreria: ah. Le ceramiche di Mammarò. Così è se vi pare. Sorrido, da sola come una fessa. Siii... avrei potuto fare di meglio... avendo a disposizione il materiale adatto... eh, mi sono arrangiata. Però tutto sommato non c'è male. Metto a posto il vaso col bordo giallo. Lo giro dall'altro lato.

Signori, si chiude.

2 commenti:

  1. Oddio quanta nostalgia...certo nel ricordo tutta appare più bello, ma la tappezzeria non mi era sembrata così "fine". :D

    Leggendoti, una lacrima, un sorriso e una forte sensazione di déjà vu...

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  2. Come non ricordare i giorni del trasloco, la porta del firewall non aperta ad Arezzo e la corsa di "straforo" nei locali di via Toscanini.Per non parlare poi delle doti di restauratrice provetta dimostrate da Monica.
    Certo nel bene e nel male questi posti e le persone resteranno un ricordo importante delle nostre vite.

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