martedì 15 ottobre 2013

Scotch-carta e asilo - 1

Sono solita ascoltare le opinioni degli altri, forse troppo. Metto sempre in discussione il mio punto di vista, perchè reputo questa un'occasione di crescita per me e per l'altro, sempre. E proprio per questo va a finire che discuto, sempre. Ma questo, no, non lo discuto. Non posso tollerare quel discorso che ho sentito fare a uno, alla radio, parlando dell'ennesima immane tragedia che si è portata via centinaia di vite umane. Un discorso tra i tanti, sarebbe meglio stessero a casa loro... rappresentano un problema... come facciamo... e poi, improvvisamente mi colpisce questa frase, apparentemente innocua e pronunciata con trepidazione: "i miei genitori mi hanno insegnato che si guarda prima dentro casa e poi fuori".. Omino, non ti voglio deludere, ma non c'è nessuna vera "casa" se non quei confini creati dagli uomini, chiamati Paese, che notoriamente sono mobili, plasmabili, decisi a tavolino, ritagliabili e cedibili, labili, com'è labile la vita umana. La storia ci insegna che i confini geografici e la paventata "identità" di un popolo cambiano nei secoli, anche quella determinata dai confini naturali... la storia ci insegna anche - dal Settecento - che pensare di "essere cittadino del mondo" ha significato saper guardare lontano. Bocciato. Rimandato, all'Illuminismo. Ma non solo. Bocciato perchè parla di dentro e fuori, è dagli anni settanta che si cerca di insistere per scardinare la mentalità dell'altro come diverso e pericoloso...omino, non c'è nessun confine "noi", nessun confine "casa", nessun confine "Paese" se non situazioni. Situazioni da risolvere o almeno, da dibattere. Anni e anni orsono mio nonno scappava dai nazisti, lo tennero nascosto, per molti mesi. Rischiando la pelle. E una volta io e la mia famiglia rimanemmo fermi col furgone rotto lontani chilometri dalla nostra casa... avevo circa otto anni. Una famiglia che non ci conosceva ci tenne in casa, a dormire e mangiare, nei loro letti, coi loro figli, finchè non riuscirono a riparare il motore. Quando i bambini parlavano in dialetto io non li capivo, e sono sicura che mio nonno facesse fatica a capire il varesotto. Ora, io non voglio giudicare quelli che passano e vedono gente morire affogata, e fanno finta di non vedere per paura... ce l'ho con chi freddamente vuol discutere di morte come se non lo riguardasse, perchè son fatti di un'altro paese e già abbiamo diversi problemi in Italia... e innalza questo concetto quasi al livello di un valore. "Io mi guardo il mio" come valore. Trasmissibile, di famiglia, addirittura. Come se il "tuo" non fosse il risultato della relazione tuo-mio. Non lo accetto, perchè questo è pericoloso, e non ti fa pensare che insieme ai problemi che ci sono, ce n'è anche un altro ugualmente importante. E il mio pensiero non ha nessun coinvolgimento politico. Si può dire che non ce la facciamo, che non abbiamo mezzi per accoglierli, discutere per giorni sul problema dell'aumento della criminalità se vuoi, di disoccupazione che si aggrava, ma assolutamente non può e non deve passare il messaggio "io guardo in casa mia e non guardo fuori perchè ne ho già abbastanza". Mio padre stava guidando sull'autostrada, anni fa, omino, quando ha visto schizzare via un motociclista e finire a bordo strada zuppo di sangue. Avrebbe potuto pensare "chi se ne frega in autostrada ti fanno la multa se ti fermi", avrebbe potuto pensare "è finito il rotolo qualcun altro cambierà la carta igienica". Ascoltami bene, omino, te lo sussurro piano piano: io sono orgogliosa del fatto che si sia fermato, sia sceso, e si sia sporcato le mani di sangue. Omino... la risposta è questa: "i miei genitori no". Dicono che De Gregori l'abbia scritta per suo figlio... non credo. Credo che l'artista in quell'occasione, abbia fatto una riflessione più profonda e molto meno banale, che non è rivolta alla nascita del suo, di figlio, se non indirettamente. Non so, ricercatela voi, la storia, se volete, ma provate ad ascoltare il testo. Benvenuto, figlio di nessuno, in questo Paese. Chi non la sente diventa impotente!

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